Quando il pannolino è un marchio
Dott. Federico Freni

Un’interessante sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee (Causa C-383/99 P, sentenza del 20 settembre 2001) offre un interessante spunto di riflessione ed analisi, sulla capacità distintiva dei marchi costituiti da invenzioni lessicali, alla luce della sempre crescente integrazione tra diritto nazionale e comunitario, soprattutto in considerazione della particolare attitudine della disciplina dei segni distintivi in generale, e del marchio in particolare, verso il processo di omogeneizzazione normativa degli ultimi anni.
Il costante sviluppo della disciplina ha permesso che, con il passare del tempo, a fianco dei marchi nazionali si sia andato a collocare, prima il c.d. marchio internazionale e, in un secondo momento, il più specifico marchio comunitario. Vale rimarcare la netta differenza che separa i due istituti: mentre il primo altro non è che un fascio di marchi nazionali, ciascuno autonomamente assoggettato alla propria disciplina nazionale, il marchio comunitario si presenta come fenomeno unitario : un unico marchio insomma, unitariamente tutelato in tutti i paesi dell’Unione [si veda, in merito, ZORZI, Il marchio comunitario, in Contr. e Impr. Europa, 1996, p.259 ss. ; SENA, Il nuovo diritto dei marchi, ivi, p. 10 ss.] .
Nello spunto cui si accennava, la Corte di Giustizia dell’ Unione, con sentenza 20 settembre 2001, ha sancito la piena registrabilità a livello comunitario, del marchio “Baby-dry”, accogliendo così il ricorso presentato della Procter & Gamble contro la sentenza del Tribunale di primo grado che aveva ritenuto il sintagma inidoneo quale marchio per pannolini per bambini. I giudici di primo grado avevano motivato la propria decisione rilevando che funzione precipua dei pannolini è quella di tenere i bambini asciutti e pertanto l’espressione si limitava ad informare i consumatori delle finalità del prodotto senza fornire elementi distintivi richiesti dalla normativa comunitaria in materia di marchi. La Corte, al contrario, ha ritenuto che espressioni quali Baby-dry (bimbo asciutto) essendo frutto di un’invenzione lessicale permetterebbero al marchio così formato di svolgere una funzione distintiva precipua, e non potrebbero costituire oggetto di un rifiuto di registrazione ai sensi dell’art. 7, n. 1, lett. c), del regolamento n. 40/94. Si escludeva in sostanza, aprendo così le porte ad interessantissimi sviluppi futuri, la decettività di un marchio similmente strutturato.
Nella disciplina nazionale l’art. 16 l.m. appronta una tutela piuttosto ampia: possono infatti costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa tutti i nuovi segni suscettibili di essere rappresentati graficamente, in particolare le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, i suoni, la forma del prodotto o della confezione di esso, le combinazioni di tonalità cromatiche, purchè siano atti a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese. Unico distinguo ravvisabile con la normativa comunitaria e il mancato riconoscimento come marchi, da parte di quest’ultima, di suoni e le combinazioni di tonalità cromatiche, che, al contrario sono tutelati dalla normativa interna. Tale definizione deriva in via diretta dall’art.2 della Direttiva 89/104, cui l’art. 16 della legge del 1992 ha dato attuazione. Ma le entità astratte enumerate dall’art. 16 sono suscettibili di registrazione, e quindi, di converso, possono concretamente costituire oggetto di tutela come marchio, solo in quanto presentino, cumulativamente, determinati requisiti di validità: a) capacità distintiva, b) liceità, c) verità e d) novità.
Il requisito della capacità distintiva, che qui interessa, è identificato, dal legislatore nazionale, come pure da quello comunitario, come l’attitudine del segno a distinguere i prodotti o servizi di un’impresa da quelli di altre imprese (art. 16 l.m.) : non quindi con riferimento ad una funzione meramente differenziatrice rispetto a segni preesistenti (si tratterebbe allora di novità del marchio), quanto piuttosto con riferimento alla funzione distintiva dell’origine imprenditoriale dei beni contrassegnati che il marchio deve svolgere sul mercato. Ha chiarito poi la giurisprudenza nazionale, che la funzione precipua del requisito della capacità distintiva è quella di trasmettere ai prodotti un quid aggiuntivo ricollegabile ad una data fonte produttiva o distributiva [così, App. Milano, 9 dicembre 1998, in Giur. Ann. Dir. Ind., 1998, n.2355]. A facilitare poi il compito dell’interprete intervengono una serie di disposizioni che da un lato escludono la registrabilità per segni che insistano su indicazioni descrittive del prodotto o su denominazioni generiche dello stesso (art. 18 comma 1 lettera b l.m.), dall’altro (art. 17 comma 1 lettera a l.m.) escludono la tutela per i segni divenuti comuni nel linguaggio corrente. Vale, in questo caso, soffermarsi su quelle che il legislatore chiama “indicazioni descrittive” (art. 18 comma1, lettera a ), precisando che tali descrizioni, per fondare la decettività del marchio, devono alludere ai caratteri essenziali delle prestazioni del prodotto. Si è così escluso che possa costituire marchio idoneo a designare un farmaco la parola medicamenta, o una macchina da caffè l’espressione moka express, o un gelato l’espressione fior di latte [per tutte si vedano: Trib. Milano, 8 novembre 1973, in Giur. Ann. Dir. Ind. , 1973, n.412 ; Trib. Milano, 27 febbraio 1975, ivi, 1975, n.704 ; Trib. Milano, 30 gennaio 1995, ivi, 1995, n.3399 (con interessanti richiami alla giurisprudenza anteriore); Trib. Napoli, 16 luglio 1977 e App. Napoli, 22 febbraio 1979, in Dir. e Giur., 1980, p.619]. Ma, nello stesso senso, anche parole di per sé comuni possono costituire valido marchio quando, tra loro combinate o associate, acquistino carattere di originalità [così, Trib.Roma, 30 ottobre 1973, in Giur.Ann.Dir. Ind. 410/4/73, ma anche Trib.Milano, 6 maggio 1976, in Giur.Ann.Dir. Ind. 829/2/76], Tale disciplina va riferita certamente a tutte le espressioni in lingua italiana, per quanto rileva la normativa nazionale. Diverso il discorso per la normativa comunitaria: si tende in questo caso a distinguere a seconda che il valore denominativo del termine sia o meno immediatamente percepibile dal consumatore medio. Il procedimento ha dato, com’era prevedibile, esiti alterni: se si è così esclusa la registrabilità del marchio football in relazione ad articoli per il gioco del calcio, mentre si è ammessa la validità del marchio Watch per designare orologi [Cass., 16 febbraio 1979, n. 1038, in Giur. Ann. Dir. ind., 1979, n.1132].