Strana storia del marchio baby-dry dalla decettività alla piena tutela

Corte di giustizia delle Comunità europee – Causa C-383/99 P del 20 settembre 2001
Pres. Iglesias – Rel. Puissochet – Procter & Gamble Company, con sede in Cincinnati (Stati Uniti), c. Ufficio per l’armonizzazione nel mercato interno (marchi, disegni e modelli) (UAMI)
La Massima
Il sintagma Baby-dry è il frutto di una invenzione lessicale che consente al marchio di svolgere una funzione distintiva e non può essere oggetto di rifiuto di registrazione per presunta recettività.
La Sentenza
Con atto introduttivo depositato nella cancelleria della Corte l’8 ottobre 1999, la Procter & Gamble Company (in prosieguo: la Procter & Gamble ha impugnato, in forza dell’art. 49 dello Statuto CE della Corte di giustizia, la sentenza pronunciata dal Tribunale di primo grado l’8 luglio 1999, nella causa T-163/98, Procter & Gamble/OHMI (BABY-DRY) (Racc. pag. II-2383; in prosieguo: la “sentenza impugnata”), con la quale il Tribunale ha annullato, basandosi su un motivo unico relativo alla violazione dell’art. 62, n. 1, del regolamento (CE) del Consiglio 20 dicembre 1993, n. 40/94, sul marchio comunitario[1] (GU 1994, L 11, pag. 1), la decisione 31 luglio 1998 della prima commissione di ricorso dell’Ufficio per l’armonizzazione nel mercato interno (marchi, disegni e modelli; in prosieguo: l'”UAMI”) (pratica R 35/1998-1; in prosieguo: la “decisione controversa”), che respingeva il ricorso presentato dalla Procter & Gamble contro il rifiuto di registrazione come marchio comunitario del sintagma Baby-dry per pannolini monouso di carta o cellulosa e pannolini di tessuto.
Il regolamento n. 40/94
Ai sensi dell’art. 7 del regolamento n. 40/94 [2]
“1. Sono esclusi dalla registrazione:
a) i segni che non sono conformi all’articolo 4;
b) i marchi privi di carattere distintivo;
c) i marchi composti esclusivamente da segni o indicazioni che in commercio possono servire per designare la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica, ovvero l’epoca di fabbricazione del prodotto o di prestazione del servizio, o altre caratteristiche del prodotto o servizio; (…)
2. Il paragrafo 1 si applica anche se le cause d’impedimento esistono soltanto per una parte della Comunità.
3. Il paragrafo 1, lettere b), c) e d) non si applica se il marchio ha acquistato, per tutti i prodotti o servizi per i quali si chiede la registrazione, un carattere distintivo in seguito all’uso che ne è stato fatto”.
3.
Ai sensi dell’art. 62, n. 1, del regolamento n. 40/94: “In seguito all’esame sul merito del ricorso, la commissione di ricorso delibera sul ricorso. Essa può sia esercitare le competenze dell’organo che ha emesso la decisione impugnata, sia rinviare l’istanza a detto organo per la prosecuzione della procedura”.

Fatti della causa
4.
La Procter & Gamble ha chiesto all’UAMI, con lettera 3 aprile 1996, la registrazione come marchio comunitario del sintagma Baby-dry per pannolini monouso di carta o cellulosa e pannolini di tessuto.
5.
L’esaminatore dell’UAMI ha respinto tale domanda il 29 gennaio 1998. Con la decisione controversa la prima commissione di ricorso dell’UAMI ha respinto il ricorso che la Procter & Gamble aveva presentato contro la decisione dell’esaminatore. Detta commissione ha ritenuto che il sintagma Baby-dry fosse esclusivamente composto da termini che possono servire, in commercio, per designare la destinazione del prodotto considerato, che fosse del pari privo di carattere distintivo e che, di conseguenza, non fosse adatto per la registrazione ai sensi dell’art. 7, n. 1, lett. b) e c), del regolamento n. 40/94. La detta commissione ha inoltre dichiarato irricevibile l’argomento della Procter & Gamble riguardante il carattere distintivo che il marchio avrebbe acquisito dopo l’uso che ne è stato fatto, ai sensi dell’art. 7, n. 3, del regolamento n. 40/94, in quanto tale argomento non era stato preventivamente sviluppato dinanzi all’esaminatore dell’UAMI.

La sentenza impugnata
6.
Nella sentenza impugnata si è ammesso, in primo luogo, che il sintagma Baby-dry non era atto a costituire un marchio comunitario, confermando con ciò la valutazione espressa nella decisione controversa.
7.
Il Tribunale ha infatti considerato che i segni composti esclusivamente da termini che possono servire, nel commercio, a designare la destinazione di un prodotto dovevano essere ritenuti inadatti, per la loro stessa natura, a distinguere i prodotti di un’impresa da quelli di un’altra impresa, anche se l’impedimento esiste solo per una parte della Comunità. Dato che i pannolini esercitano una funzione assorbente al fine di tenere il bimbo asciutto, esso ne ha dedotto che il sintagma Baby-dry si limitava a informare il consumatore della destinazione del prodotto senza comportare un ulteriore elemento atto a conferirgli un carattere distintivo.
8.
In secondo luogo, il Tribunale ha esaminato l’argomento sviluppato in subordine dalla ricorrente e relativo al fatto che la decisione controversa a torto avrebbe dichiarato irricevibile, in quanto non sottoposta al vaglio preventivo dell’esaminatore, l’offerta di prova presentata dalla Procter & Gamble circa il carattere distintivo che il sintagma Baby-dry avrebbe acquisito in seguito all’uso ai sensi dell’art. 7, n. 3, del regolamento n. 40/94. Esso ha dichiarato che, opponendo tale irricevibilità, la commissione di ricorso aveva violato l’art. 62 del regolamento n. 40/94, che, interpretato alla luce dell’economia di tale testo normativo che presuppone una continuità, in seno all’UAMI, tra l’intervento dell’esaminatore e quello delle commissioni di ricorso, non consente alla commissione di respingere un argomento per il solo motivo che esso non è stato esposto dinanzi all’esaminatore.
9.
Il Tribunale ha quindi concluso che la decisione controversa doveva essere annullata in quanto la commissione di ricorso dell’UAMI a torto si era rifiutata di esaminare l’argomento della Procter & Gamble relativo all’art. 7, n. 3, del regolamento n. 40/94.
10.
Esso ha respinto le altre conclusioni della Procter & Gamble ed ha annullato la decisione controversa.

Il ricorso
11.
La Procter & Gamble conclude che la Corte voglia annullare la sentenza impugnata in quanto il Tribunale ha dichiarato che la prima commissione di ricorso dell’UAMI non aveva violato l’art. 7, n. 1, lett. c), del regolamento n. 40/94 nell’adottare la decisione controversa. Esso chiede ugualmente che l’UAMI sia condannato alle spese.
12.
L’UAMI chiede il rigetto del ricorso e la condanna della Procter & Gamble alle spese.

Sulla ricevibilità del ricorso

Argomenti delle parti
13.
La ricorrente sostiene, da un lato, che essa è risultata in parte soccombente nelle sue conclusioni dinanzi al Tribunale, poiché essa faceva valere contro la decisione litigiosa una violazione dell’art. 7, n. 1, lett. b) e c), del regolamento n. 40/94, e che questo argomento è stato respinto dal Tribunale.
14.
Essa afferma, d’altro lato, di poter far valere un interesse a ricorrere dato che, per adottare le misure che l’esecuzione della sentenza impugnata richiede, l’UAMI riesaminerà la domanda di registrazione considerata solo che con riguardo all’art. 7, n. 3, del regolamento n. 40/94, e non con riguardo all’art. 7, n. 1, lett. b) e c), di tale regolamento. Infatti, l’interpretazione contenuta nella decisione controversa relativa a queste ultime due disposizioni è stata accolta dal Tribunale, e la portata dell’obbligo di esecuzione della sentenza impugnata sarebbe valutata in funzione della motivazione che costituisce il necessario sostegno del dispositivo della sentenza stessa.
15.
L’UAMI ammette che la ricorrente dispone di un interesse ad agire e solleva dubbi, in ordine alla ricevibilità, solo sul punto se il motivo invocato, che si riferisce ad un’asserita violazione del diritto comunitario, sia atto a giustificare un ricorso. Esso si rimette ad ogni modo alla Corte, trattandosi di una questione di ordine pubblico.

Giudizio della Corte
16.
Ai sensi dell’art. 49, primo e secondo comma, dello Statuto CE della Corte di giustizia: “Può essere proposta un’impugnazione dinanzi alla Corte, entro un termine di due mesi a decorrere dalla notifica della decisione impugnata, contro le decisioni del Tribunale che concludono il procedimento nonché contro le pronunzie che decidono parzialmente la controversia nel merito o che pongono termine ad un incidente di procedura relativo ad un’eccezione di incompetenza o di irricevibilità.
L’impugnazione può essere proposta da qualsiasi parte che sia rimasta parzialmente o totalmente soccombente nelle sue conclusioni [3](…)”.
17.
Ai sensi dell’art. 92, n. 2, del regolamento di procedura della Corte:
“La Corte può, in qualsiasi momento, rilevare d’ufficio l’irricevibilità per motivi di ordine pubblico o dichiarare, sentite le parti, che il ricorso è divenuto privo di oggetto e che non vi è più luogo a statuire; la decisione è adottata nelle forme previste dall’articolo 91, paragrafi 3 e 4, del presente regolamento”.
18.
Dato che la Procter & Gamble ha chiesto al Tribunale l’annullamento della decisione controversa e che il dispositivo della sentenza impugnata ha preso la forma di un annullamento puro e semplice di tale decisione, la Corte deve esaminare d’ufficio la questione se la ricorrente sia rimasta almeno parzialmente soccombente nelle sue conclusioni e se quindi sia ricevibile il suo ricorso contro la sentenza impugnata.
19.
Dal punto 9 della sentenza impugnata risulta che la ricorrente ha concluso, in particolare, nel senso che il Tribunale voglia, da un lato, in via principale, annullare la decisione controversa nella parte in cui ha dichiarato che il marchio non era conforme alle condizioni previste dall’art. 7, n. 1, lett. b) e lett. c), del regolamento n. 40/94 e, dall’altro, in subordine, annullare la decisione controversa, nella parte in cui ha dichiarato irricevibile l’argomento della ricorrente basato sull’art. 7, n. 3, di tale regolamento.
20.
Il Tribunale ha innanzi tutto espressamente respinto la parte principale delle conclusioni, affermando, al punto 28 della sentenza impugnata, che giustamente la prima commissione di ricorso dell’UAMI aveva concluso che, sulla base dell’art. 7, n. 1, lett. c), del regolamento n. 40/94, il sintagma Baby-dry non potesse costituire un marchio comunitario. Soltanto successivamente il Tribunale ha concluso che tale commissione aveva violato le disposizioni dell’art. 62 dello stesso regolamento dichiarando irricevibile l’argomento della ricorrente basato sull’art. 7, n. 3, ed ha di conseguenza accolto la parte subordinata delle conclusioni del ricorso.
21.
Il Tribunale ha tratto dal suo esame delle due parti del ricorso la conclusione generale, contenuta nel punto 54 della sentenza impugnata, secondo cui la decisione controversa doveva essere annullata in quanto la prima commissione di ricorso dell’UAMI si era, a torto, rifiutata di esaminare l’argomento della ricorrente basato sull’art. 7, n. 3, del regolamento n. 40/94; ha aggiunto che spettava all’Ufficio adottare i provvedimenti necessari per l’esecuzione della sentenza.
22.
Ciò posto, e nonostante il fatto che il dispositivo della sentenza impugnata non riprenda espressamente la limitazione contenuta nel suo punto 54, si deve considerare che tale sentenza accoglie in realtà solo parzialmente le domande della ricorrente.
23.
Infatti, mediante la forma dell’atto unico che costituisce la decisione controversa, la prima commissione di ricorso dell’UAMI ha in realtà adottato due provvedimenti, l’uno che rifiuta la registrazione del sintagma Baby-dry per gli impedimenti di cui all’art. 7, n. 1, lett. b) e c), del regolamento n. 40/94, e l’altro che dichiara irricevibile l’argomento della ricorrente relativo all’art. 7, n. 3, di tale regolamento.
24.
Annullando la decisione controversa in quanto rifiutava di esaminare l’argomento basato sull’art. 7, n. 3, del regolamento n. 40/94 e solo in tale misura, la sentenza impugnata ha fatto salva la parte di tale decisione relativa alla conformità del sintagma Baby-dry ai requisiti di cui all’art. 7, n. 1, lett. b) e c), di tale regolamento.
25.
Il Tribunale non ha perciò proceduto che ad un annullamento parziale dell’atto sottoposto al suo controllo. Ne consegue che, al fine di prendere le misure necessarie per l’esecuzione della sentenza impugnata, come dalla stessa menzionate al suo punto 54, l’UAMI ha potuto limitarsi a procedere ad un esame dell’applicazione alla fattispecie dell’art. 7, n. 3, del regolamento n. 40/94, senza cambiare opinione quanto alla sua interpretazione dell’art. 7, n. 1, lett. b) e c), di tale regolamento, che è stata convalidata dal Tribunale.
26.
La Procter & Gamble giustifica di conseguenza un interesse a ricorrere contro la sentenza impugnata in quanto quest’ultima ha rifiutato di accogliere la sua domanda d’annullamento del rifiuto di registrazione del marchio Baby-dry pronunciato sulla base dell’art. 7, n. 1, lett. b) e c), del regolamento n. 40/94.
27.
Il ricorso, che mira ad annullare in tale misura la sentenza impugnata, dev’essere perciò dichiarato ricevibile.

Sulla fondatezza del ricorso

Argomenti delle parti
28.
La ricorrente fa valere a sostegno del suo ricorso un motivo unico secondo il quale il Tribunale avrebbe attribuito una portata eccessivamente ampia all’impedimento assoluto alla registrazione riferito al carattere esclusivamente descrittivo dei segni e delle indicazioni che compongono un marchio. Potrebbero infatti essere esclusi dalla registrazione come marchio comunitario, sulla base dell’art. 7, n. 1, lett. c), del regolamento n. 40/94, unicamente i segni e le indicazioni che possano venir percepiti dal pubblico solo come una designazione delle caratteristiche del prodotto considerato e che come tali sono ritenuti inidonei a svolgere la funzione distintiva di un marchio, che deve permettere di associare un prodotto all’impresa che lo mette in commercio, distinguendolo dai prodotti dello stesso tipo provenienti da imprese concorrenti.
29.
Considerando che il sintagma Baby-dry informa direttamente il consumatore sulla destinazione dei prodotti e che non è dotato di alcun elemento aggiuntivo in grado di rendere il segno nel suo insieme atto a distinguere i prodotti della ricorrente da quelli di altre imprese, il Tribunale avrebbe erroneamente interpretato ed applicato la disposizione di cui trattasi.
30.
Secondo la ricorrente, il Tribunale avrebbe pronunciato una sentenza ispirata ad una concezione superata del marchio, secondo la quale la registrazione di un marchio conferisce al suo titolare un monopolio sull’uso dei segni o delle indicazioni che lo costituiscono, monopolio dal quale conseguirebbe che tutti i segni o le indicazioni che abbiano un carattere descrittivo, che devono essere lasciati liberi per gli usi del commercio, sono per definizione inidonei a rappresentare dei marchi.
31.
La moderna concezione che avrebbe ispirato il regolamento n. 40/94 escluderebbe invece ogni diritto monopolistico sui segni o sulle indicazioni che costituiscono un marchio, di cui i terzi potrebbero continuare a fare un uso normale. Correlativamente, nessuna categoria di segni o di indicazioni sarebbe astrattamente ritenuta inadatta a costituire un marchio. Il carattere descrittivo, come il carattere generico, di un segno o di un’indicazione costituirebbero solo una sottovoce dell’impedimento alla registrazione riguardante la mancanza di carattere distintivo dei segni o delle indicazioni proposti come marchio, dato che le due nozioni – carattere distintivo e carattere non esclusivamente descrittivo – devono essere considerate insieme per verificare se i segni o le indicazioni proposti siano atti ad identificare i prodotti considerati come provenienti da una impresa specifica.
32.
L’UAMI non contesta la pertinenza di tale analisi teorica ed osserva che il carattere distintivo è l’elemento determinante per valutare l’idoneità di un segno a costituire un marchio, laddove, a tale riguardo, il carattere esclusivamente descrittivo costituirebbe un caso per il quale sussiste una presunzione di mancanza di carattere distintivo.
33.
Secondo l’UAMI un rifiuto di registrazione fondato sul carattere descrittivo presuppone che siano soddisfatte tre condizioni, ossia:
– l’assenza di modalità di presentazione o di aggiunta di elementi la cui presenza farebbe sì che il segno non sia esclusivamente descrittivo;
– il riferimento del segno ad una qualità essenziale del prodotto, e non ad una qualità secondaria o che non gli sia propria;
– il carattere percettibile di tale riferimento per il pubblico interessato al consumo del prodotto.
34.
Il sintagma Baby-dry risponderebbe, come ha dichiarato il Tribunale, alle condizioni così richieste perché sia considerato come esclusivamente descrittivo.

Giudizio della Corte
35.
Si deve ricordare che, ai sensi dell’art. 7, n. 1, del regolamento n. 40/94 sono esclusi dalla registrazione, ai sensi della lett. b) di tale paragrafo, i marchi privi di carattere distintivo, e, ai sensi della lett. c) dello stesso paragrafo, i marchi composti esclusivamente da segni o indicazioni che in commercio possono servire per designare la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica, ovvero l’epoca di fabbricazione del prodotto o di prestazione del servizio, o altre caratteristiche del prodotto o servizio.
36.
Inoltre, in forza dell’art. 12 del regolamento n. 40/94, il diritto conferito dal marchio non consente di impedire ai terzi l’uso in commercio di indicazioni relative alla specie, alla qualità, alla quantità, alla destinazione, al valore, alla provenienza geografica, all’epoca di fabbricazione del prodotto o di prestazione del servizio o ad altre caratteristiche del prodotto o servizio, purché questo uso sia conforme alle consuetudini di lealtà in campo industriale o commerciale.
37.
Risulta dal combinato disposto di tali disposizioni che lo scopo del divieto di registrazione come marchio di segni o di indicazioni esclusivamente descrittivi è, come ammettono sia la Procter & Gamble, sia l’UAMI, di evitare che siano registrati come marchi segni o indicazioni che, data la loro identità con le modalità abituali di designazione dei prodotti o dei servizi considerati o di loro caratteristiche, non consentirebbero di svolgere la funzione di identificazione dell’impresa che li immette nel mercato e sarebbero quindi privi del carattere distintivo presupposto da tale funzione.
38.
Tale interpretazione è l’unica che sia compatibile anche con l’art. 4 del regolamento n. 40/94, ai sensi del quale possono costituire marchi comunitari tutti i segni che possono essere riprodotti graficamente, in particolare le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, la forma dei prodotti o del loro confezionamento, a condizione che tali segni siano atti a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese.
39.
I segni e le indicazioni di cui all’art. 7, n. 1, lett. c), del regolamento n. 40/94 sono quindi solo quelli che, in un uso normale dal punto di vista del consumatore, possono servire a designare, direttamente o tramite la menzione di una delle sue caratteristiche essenziali, un prodotto od un servizio come quello per cui è richiesta la registrazione. Inoltre, un marchio che contenesse segni ed indicazioni che rispondano a tale definizione dovrebbe essere escluso dalla registrazione solo a condizione che non contenga altri segni od altre indicazioni e, d’altronde, a condizione che i segni e le indicazioni esclusivamente descrittivi che lo compongono non siano presentati o disposti in modo da distinguere l’insieme ottenuto dalle modalità abituali di designazione dei prodotti o dei servizi considerati o delle loro caratteristiche essenziali.
40.
Per quanto riguarda i marchi composti da parole, come quello oggetto della controversia, un eventuale carattere descrittivo deve essere constatato non solo per ciascuno dei termini considerati separatamente, ma anche per l’insieme che essi compongono. Ogni scostamento percettibile nella formulazione del sintagma presentato per la registrazione rispetto alla terminologia impiegata, nel linguaggio corrente della categoria interessata di consumatori, per designare il prodotto od il servizio o le loro caratteristiche essenziali è atto a conferire a tale sintagma un carattere distintivo che gli permette d’essere registrato come marchio.
41.
Si precisa invero all’art. 7, n. 2, del regolamento n. 40/94 che il n. 1 di tale articolo si applica anche se le cause d’impedimento esistono soltanto per una parte della Comunità. Tale disposizione, che giustamente è stata citata al punto 24 della sentenza impugnata, implica che, se un sintagma presenta un carattere unicamente descrittivo in una delle lingue usate nel commercio all’interno della Comunità, questa constatazione basta per renderlo inidoneo alla registrazione come marchio comunitario.
42.
Per valutare l’idoneità di un sintagma come Baby-dry a presentare un carattere distintivo, ci si deve quindi porre dal punto di vista di un consumatore di lingua inglese. Da tale punto di vista, e trattandosi di pannolini per bimbi, la valutazione da effettuare dipende dalla soluzione della questione se il sintagma in discussione possa essere percepito come un modo normale per designare tale prodotto o per presentare le sue caratteristiche essenziali nel linguaggio comune.
43.
Orbene, il sintagma considerato, se pure incontestabilmente si richiama alla funzione presumibilmente svolta dal prodotto, non risponde tuttavia ai requisiti ricordati ai punti 39-42 della presente sentenza. Infatti, anche se ciascuno dei due termini che compongono l’insieme considerato può far parte di espressioni proprie del linguaggio comune per designare la funzione di pannolini per bimbi, la loro giustapposizione, inusuale nella sua struttura, non costituisce un’espressione nota della lingua inglese per designare tali prodotti o per presentare le loro caratteristiche essenziali.
44.
Non si può, di conseguenza, ritenere che termini quali Baby-dry presentino, insieme, un carattere descrittivo; essi sono frutto al contrario di un’invenzione lessicale che permette al marchio così formato di svolgere una funzione distintiva e non possono costituire oggetto di un rifiuto di registrazione ai sensi dell’art. 7, n. 1, lett. c), del regolamento n. 40/94.
45.
Il Tribunale ha quindi commesso un errore di diritto nel dichiarare che la prima commissione di ricorso dell’UAMI aveva potuto legittimamente decidere, sulla base di tale disposizione, che il sintagma Baby-dry non poteva costituire un marchio comunitario.
46.
Di conseguenza, si deve annullare la sentenza impugnata nella misura chiesta dalla Procter & Gamble e, accogliendo le conclusioni presentate da quest’ultima dinanzi al Tribunale, annullare del pari la decisione controversa in quanto essa ha respinto, sulla base dell’art. 7, n. 1, lett. c), del regolamento n. 40/94, la domanda di registrazione del marchio Baby-dry.
Sulle spese
47.
Ai sensi dell’art. 122 del regolamento di procedura della Corte, quando l’impugnazione è accolta e la controversia viene definitivamente decisa dalla Corte, quest’ultima statuisce sulle spese.
48.
Ai sensi dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura della Corte, applicabile al procedimento d’impugnazione ai sensi dell’art. 118, la parte soccombente è condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. Poiché la Procter & Gamble ne ha fatto domanda, l’UAMI, rimasto soccombente, va condannato alle spese dei due gradi di giudizio.
Per questi motivi,
LA CORTE
dichiara e statuisce:
1) La sentenza del Tribunale di primo grado 8 luglio 1999, causa T-163/98, Procter & Gamble/UAMI (Baby-dry), è annullata nella parte in cui ha dichiarato che la prima commissione di ricorso dell’Ufficio per l’armonizzazione nel mercato interno (marchi, disegni e modelli), non aveva violato l’art. 7, n. 1, lett. c), del regolamento (CE) del Consiglio 20 dicembre 1993, n. 40, sul marchio comunitario adottando la decisione 31 luglio 1998 (pratica R 35/1998-1).
2) La decisione della prima commissione di ricorso dell’Ufficio per l’armonizzazione nel mercato interno (marchi, disegni e modelli) 31 luglio 1998 (pratica R 35/1998-1) è annullata in quanto essa ha respinto, sulla base dell’art. 7, n. 1, lett. c), del regolamento n. 40/94, la domanda di registrazione del marchio Baby-dry.
3) L’Ufficio per l’armonizzazione nel mercato interno (marchi, disegni e modelli) è condannato alle spese dei due gradi di giudizio.

Il commento del Dott. Federico Freni

Tra gli istituti più “antichi” del diritto industriale quello del marchio (ma più in generale, tutta la disciplina dei segni distintivi) è sicuramente quello che si è meglio saputo adattare ai tempi, quello che, insomma, ha saputo prendere la forma dell’acqua. La già vasta disciplina nazionale (R.d. 21 giugno 1942, n. 929 e successive modificazioni, derivanti, perlopiù dall’attuazione di direttive comunitarie) coeva al Codice ha saputo resistere all’incessante progresso tecnico e tecnologico, tanto da poter ricomprendere la tutela dei domain names in un impianto normativo di quasi 70 anni fa, senza arrecare particolari e gravosi stravolgimenti al sistema. Con il passare del tempo a fianco dei marchi nazionali si è andato collocando prima il c.d. marchio internazionale e, in un secondo momento, il più specifico marchio comunitario. Vale rimarcare la netta differenza che separa i due istituti: mentre il marchio internazionale altro non è che un fascio di marchi nazionali, ciascuno autonomamente assoggettato alla propria disciplina nazionale, il marchio comunitario si presenta come fenomeno unitario: un unico marchio insomma, unitariamente tutelato in tutti i paesi dell’Unione [si veda, in merito, ZORZI, Il marchio comunitario, in Contr. e Impr. Europa, 1996, p.259 ss. ; SENA, Il nuovo diritto dei marchi, ivi, p. 10 ss.]. Nella sentenza in epigrafe la Corte di Giustizia dell’ Unione, con sentenza 20 settembre 2001, ha stabilito la piena registrabilità a livello comunitario, del marchio “Baby-dry”, accogliendo così il ricorso presentato della Procter & Gamble contro la sentenza del Tribunale di primo grado che aveva ritenuto il sintagma inidoneo quale marchio per pannolini per bambini. I giudici di primo grado avevano motivato la propria decisione rilevando che funzione precipua dei pannolini è quella di tenere i bambini asciutti e pertanto l’espressione si limitava ad informare i consumatori delle finalità del prodotto senza fornire elementi distintivi richiesti dalla normativa comunitaria in materia di marchi. La Corte, al contrario, ha ritenuto che espressioni quali Baby-dry (bimbo asciutto) sono frutto di un’invenzione lessicale che permette al marchio così formato di svolgere una funzione distintiva e non possono costituire oggetto di un rifiuto di registrazione ai sensi dell’art. 7, n. 1, lett. c), del regolamento n. 40/94. Si
escludeva in sostanza, la recettività di un marchio così strutturato. Questo il fatto. Ciò premesso vale analizzare i principi che sono alla base di tale decisione, ricordando che per quanto concerne il requisito della capacità distintiva la normativa nazionale e quella comunitaria si trovano, sostanzialmente, su di un’un’unica linea di vedute normative. L’art. 16 l.m. appronta una tutela piuttosto ampia: possono infatti costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa tutti i nuovi segni suscettibili di essere rappresentati graficamente, in particolare le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, i suoni, la forma del prodotto o della confezione di esso, le combinazioni di tonalità cromatiche, purché siano atti a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese. Unico distinguo: la normativa comunitaria non riconosce come marchi i suoni e le combinazioni di tonalità cromatiche, che invece ricorrono nella normativa interna. Tale definizione deriva in via diretta dall’art.2 della Direttiva 89/104, cui l’art. 16 della legge del 1992 ha dato attuazione. Ma non è così semplice: le entità astratte enumerate dall’art. 16 sono suscettibili di registrazione, e quindi, di converso, possono concretamente costituire oggetto di tutela come marchio, solo in quanto presentino, cumulativamente, determinati requisiti di validità: a) capacità distintiva, b) liceità, c) verità e d) novità. Nel caso di specie ci soffermeremo sulla capacità distintiva, che al marchio Baby Dry sembrava difettare, a detta del primo giudice. Il requisito della capacità distintiva è identificato, dal legislatore nazionale come pure da quello comunitario come l’attitudine del segno a distinguere i prodotti o servizi di un’impresa da quelli di altre imprese (art. 16 l.m.) : non quindi con riferimento ad una funzione meramente differenziatrice rispetto a segni preesistenti (si tratterebbe allora di novità del marchio), quanto piuttosto con riferimento alla funzione distintiva dell’origine imprenditoriale dei beni contrassegnati che il marchio deve svolgere sul mercato. Ha chiarito poi la giurisprudenza nazionale, che la funzione precipua del requisito della capacità distintiva è quella di trasmettere ai prodotti un quid aggiuntivo ricollegabile ad una data fonte produttiva o distributiva [così, App. Milano, 9 dicembre 1998, in Giur. Ann. Dir. Ind., 1998, n.2355]. A facilitare il compito dell’interprete intervengono una serie di disposizioni che da un lato escludono la registrabilità per segni che insistano su indicazioni descrittive del prodotto o su denominazioni generiche dello stesso (art. 18 comma 1 lettera b l.m.), dall’altro escludono la tutela per i segni divenuti comuni nel linguaggio corrente. Vale, in questo caso, soffermarsi su quelle che il legislatore chiama “indicazioni descrittive” (art. 18 comma 1, lettera a, precisando che tali descrizioni, per fondare la decettività del marchio, devono alludere ai caratteri essenziali delle prestazioni del prodotto. Si è così escluso che possa costituire marchio idoneo a designare un farmaco la parola medicamenta, o una macchina da caffè l’espressione moka express, o un gelato l’espressione fior di latte [per tutte si vedano: Trib. Milano, 8 novembre 1973, in Giur. Ann. Dir. Ind. , 1973, Trib. Milano, 27 febbraio 1975, ivi, 1975, n.704 ; Trib. Milano, 30 gennaio 1995, ivi, 1995, n.3399 (con interessanti richiami alla giurisprudenza anteriore); Trib. Napoli, 16 luglio 1977 e App. Napoli, 22 febbraio 1979, in Dir. e Giur., 1980, p.619]. Tale disciplina va riferita certamente a tutte le espressioni in lingua italiana, per quanto rileva la normativa nazionale. Diverso il discorso per la normativa comunitaria: si tende in questo caso a distinguere a seconda che il valore denominativo del termine sia o meno immediatamente percepibile dal consumatore medio. Il procedimento ha dato esiti alterni: se si è così esclusa la registrabilità del marchio Football in relazione ad articoli per il gioco del calcio, mentre si è ammessa la validità del marchio Watch per designare orologi [Cass., 16 febbraio 1979, n. 1038, in Giur. Ann. Dir. ind., 1979, n.1132]. Tale impianto normativo-concettuale risulta carente laddove un’esclusiva su denominazioni generiche comunitarie potrebbe porsi in contrasto con l’esigenza della libera circolazione delle merci, sancita ex. Artt. 30 ss. del Trattato di Roma; ben potrebbe infatti, secondo questo principio, un imprenditore italiano registrare in Italia il marchio Schinken, trovandosi poi però nell’impossibilità di esportare il prodotto in tutti i paesi di lingua tedesca.
Effetto, quest’ultimo, sicuramente incompatibile con la disciplina comunitaria, e dunque da prevenirsi, indipendentemente dalla consapevolezza nel consumatore medio italiano che nella lingua tedesca l’espressione corrispondente stia a significare il nome comune del genere merceologico corrispondente [così, Ricolfi, I segni distintivi, p. 51; ma si veda anche Vanzetti – Di Cataldo, Diritto industriale, p.139, e Di Cataldo, I segni distintivi, p. 70]. Peculiari, e considerabili con minor rigore sono poi le espressioni o i termini derivanti da lingue di paesi non appartenenti all’ Unione o lingue morte [così, Trib. Bari, 20 dicembre 1978, in Giur. Ann. Dir. ind., 1978, n.1106, laddove si è consentita la registrabilità del marchio Cynar per il noto aperitivo a base di carciofo], e i termini che derivino in via diretta da un dialetto infranazionale [Trib. Udine, 31 maggio 1993, in Giur. Ann. Dir. ind., 1993, n.3059, che ha considerato tutelabile come marchio per grappe l’espressione “Ue” che in friulano significa “uve”]. Nell’analisi della normativa comunitaria si deve ricordare che, ai sensi dell’art. 7, n. 1, del regolamento n. 40/94 (in linea con la normativa degli artt. 16-18 l.m.) sono esclusi dalla registrazione, ai sensi della lett. b), i marchi privi di carattere distintivo, e, ai sensi della lett. c) dello stesso paragrafo, i marchi composti esclusivamente da segni o indicazioni che in commercio possono servire per designare la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica, ovvero l’epoca di fabbricazione del prodotto o di prestazione del servizio, o altre caratteristiche del prodotto o servizio. Inoltre, precisa l’art. 12 del regolamento n. 40/94, il diritto conferito dal marchio non consente di impedire ai terzi l’uso in commercio di indicazioni relative alla specie, alla qualità, alla quantità, alla destinazione, al valore, alla provenienza geografica, all’epoca di fabbricazione del prodotto o di prestazione del servizio o ad altre caratteristiche del prodotto o servizio, purché questo uso sia conforme alle consuetudini di lealtà in campo industriale o commerciale. Risulta dunque dal combinato disposto di tali disposizioni, riprendendo la logica argomentativa della Corte, che lo scopo del divieto di registrazione come marchio di segni o di indicazioni esclusivamente descrittivi sia quello di evitare che siano registrati come marchi segni o indicazioni che, data la loro identità con le modalità abituali di designazione dei prodotti o dei servizi considerati o di loro caratteristiche, non consentirebbero di svolgere la funzione di identificazione dell’impresa che li immette nel mercato e sarebbero quindi privi del carattere distintivo presupposto da tale funzione. Per quanto riguarda i marchi composti da parole, come quello oggetto della controversia, un eventuale carattere descrittivo deve essere constatato non solo per ciascuno dei termini considerati separatamente, ma anche per l’insieme che essi compongono. Ogni scostamento percettibile nella formulazione del sintagma presentato per la registrazione rispetto alla terminologia impiegata per designare il prodotto od il servizio o le loro caratteristiche essenziali (sempre, si badi, con riferimento ad una data categoria di consumatori) è atto a conferire a talesintagma un carattere distintivo che gli permette d’essere registrato come marchio. Nel caso di specie il sintagma considerato, se pure incontestabilmente si richiama alla funzione presumibilmente svolta dal prodotto, non risponde tuttavia ai requisiti di non registrabilità prima ricordati. Difatti , anche se ciascuno dei due termini che compongono l’insieme considerato può far parte di espressioni proprie del linguaggio comune per designare la funzione di pannolini per bimbi, la loro giustapposizione, inusuale nella sua struttura, non costituisce un’espressione nota della lingua inglese per designare tali prodotti o per presentare le loro caratteristiche essenziali. Non si può, di conseguenza, ritenere che termini quali Baby-dry presentino, insieme, un carattere descrittivo; essi sono frutto al contrario di un’invenzione lessicale che permette al marchio così formato di svolgere una funzione distintiva e non possono costituire oggetto di un rifiuto di registrazione ai sensi dell’art. 7, n. 1, lett. c), del regolamento n. 40/94.